di Emanuele Pini, volontario tempi lunghi in Congo
Vi scrivo da Ariwara, quando scende l’intimità della notte e il silenzio delle cicale.
Non chiedetemi di spiegarvi l’Africa in poche righe, perché sarebbe come trovare il segreto del sorriso di un bambino.
Non chiedetemi neppure di dirvi perché io sia arrivato sin qui, dal mio paesino nel Comasco, dal mio bel posto come insegnante di lettere, dalla mia casa comoda: sarebbe come trovare il perché di un amore che sa cambiare la vita. Se posso essere sincero, non è stata per nulla una scelta drastica o coraggiosa, quanto piuttosto la continuazione naturale di un cammino: anche se non avevo mai pensato a progetti in Africa, quasi per curiosità nel 2015 sono partito per circa un mese di volontariato nella missione di Bethlehem, nel sud dell’Uganda. Le forti emozioni vissute, il fondamentale supporto de VOICA, l’aver trovato compagni di viaggio unici e arricchenti, il desiderio di conoscere ancora di più mi hanno spinto a tentare un’esperienza più profonda: ho chiesto un anno di pausa dal lavoro ed eccomi qua. Qualcosa di semplicemente naturale.
Vi posso solo raccontare quello che vedo, le persone che incontro, i pensieri che mi passano per la testa.
Un giorno ho incontrato in ospedale una giovane ragazza, Grace, di appena 16 anni: aveva partorito il suo bimbo qualche giorno prima ma il suo uomo era fuggito chissà dove, abbandonandola sola all’ospedale, senza neanche i soldi per un pasto. E lei sorrideva, di un sorriso avvolgente come la luce di questa terra. A me, che stupidamente mi interrogavo, ha mostrato il suo bimbo, Mungutsi. Bastava lui, a darle tutta la gioia che il mondo può contenere.
Ecco, la prima volta che conosci l’Africa non sai se ridere o piangere, della povertà, della calma indolente, del godere dell’istante senza preoccuparsi del futuro; poi impari semplicemente a sorridere.
Le vere difficoltà non sono il caldo, la malaria o il cibo totalmente differente, ma l’impatto con una realtà cruda come quella che si incontra qui, una realtà con la quale si fatica a interagire senza prima entrare nell’universo culturale delle persone che la abitano. Solo qui, nel nostro piccolo ospedale, muoiono quotidianamente bambini per malnutrizione. Si toccano situazioni di povertà che in Italia conosciamo solamente per sentito dire o che neppure immaginiamo. Ma dopo aver vissuto qui, con loro, dopo che la loro casa è divenuta anche la tua, anche le situazioni del loro futuro prossimo iniziano a pesare, con questi continui riverberi di violenze e sfruttamento. È proprio per queste difficoltà, però, che bisogna andare avanti e avere coraggio. A volte inizio a pensare che i poveri, gli oppressi siano una delle poche ricchezze rimaste a questa umanità.
Ora faccio fatica, a chiamarli “poveri”. Forse non sono poveri, sono solo altro da questo nostro mondo, forse i poveri sono altri, ma chissà chi o cosa sancirà chi, tra noi e questo “mondo primo”, sia veramente meglio. Forse siamo noi a non essere la normalità, ma l’eccezione.
Africa è come una donna che porta sulla testa il mondo. Il paese dove le lamentele e i pianti non hanno spazio, il paese dove la gioia non costa nulla.
L’Africa è davvero un mondo diverso e, come spesso mi piace pensare, un mondo non primitivo, ma “primo”, ovvero più legato all’essenzialità e all’autenticità dell’esistenza. Ecco perché questo diverso tessuto culturale e sociale ti smonta pezzo per pezzo, ma poi ti ricostruisce con uno nuovo sguardo, in cui anche l’indigenza, la malattia, la morte acquisiscono nuovi significati.
Qui c’è pure il mio amico Justin: viene da Lamila, un villaggio sperduto nella savana a qualche kilometro da qui, un villaggio di capanne e capre. Da bambino la mattina all’alba faceva due ore a piedi per andare a scuola, per ritagliarsi un futuro. Ora fa l’infermiere nella pediatria dell’ospedale e, quando gli chiedo cosa ne pensi, di questo ospedale sperduto nell’Ituri, ne parla come di un dono straordinario. Presto costruirà una piccola casa sul terreno comprato grazie ai piccoli risparmi e potrà sposarsi con la sua fidanzata, dar vita a nuovi inizi e nuovi cicli.
L’altro giorno Moise mi raccontava di quando durante la guerra civile, neanche vent’anni fa, si nascondeva nella foresta per sfuggire ai miliziani che passavano villaggio per villaggio ad assoldare i bambini; ora, grazie all’aiuto delle madri canossiane, studia all’università e sogna di diventare insegnante, di educare una nuova generazione.
Pensavo che la loro assoluta Bellezza sta nel fatto che hanno visto in faccia la durezza della vita, in ogni sua difficoltà, e l’hanno affrontata, la Vita, quella vera e autentica, a volte persino selvaggia. Hanno vinto, hanno perso: non conta, l’hanno affrontata fissandola dritto negli occhi.
Non pensiate che io faccia chissà che: qui all’ospedale di Ariwara dopo un primo periodo di ambientamento, di animazione con i bambini e lavori di normale manutenzione, visto che non ho una preparazione medica specifica, ho fatto un po’ di tutto: ho lavorato alla farmacia, tra medicine e indicazioni posologiche, alla cassa, alle prese con cambi, conti e lingue esotiche da decifrare, all’amministrazione, ho cercato di dare una mano per il sistema informatico dell’ospedale, ma ho anche imparato a dare una mano agli infermieri nelle urgenze, a montare sedie ginecologiche o per esempio a scacciare vipere.
Vedete, non è nulla di speciale, a volte io stesso ho il dubbio di non fare proprio niente, eppure sto. Sto e mi presento per come sono, sto e vedo le loro difficoltà, spesso anche il loro dolore, sto e guardo loro negli occhi, dico “io sono qui, sto al vostro fianco”. È questo stare che per me da valore a quell’inutile nulla che faccio. Il fatto è che al Paradiso io ci credo, io ci sogno, ma ora so bene che in Paradiso non si può entrare da soli, che ce lo si deve creare qui, tra noi, coi nostri fratelli. E che no, non è nemmeno tanto lontano da qui.
Non so quanto potrò mancare loro, ma sono certo che io sì, sentirò una mancanza terribile: mancanza della musica, del baccano caotico e quantomai vivo per le strade, mancanza della loro fede, della loro intensità, ma quello che farò ancor più fatica a lasciare qui saranno gli amici, le tante persone con cui ho condiviso molto: Madimi, Bolingo, Mauwa, Claudine, … ma un’amicizia si potrà mai raccontare?
PICCOLA FAVOLA D’AFRICA
C’era una volta un bambino, una mamma e un leone.
C’era una volta in Africa un bambino, una mamma e un leone.
Ad Ariwara, un lontano villaggio sperduto nell’Ituri, nell’estremità nordorientale del Congo, costantemente a 5 minuti dal nulla.
C’ero anche io, nascosto come uno straniero, a vivere questa favola dietro a un baobab.
Allora, c’era una volta un bambino, che sorrideva, una mamma, che si affaticava, e un leone: no, il leone non è il protagonista e in questa storia in realtà non fa proprio nulla, scappa via nella savana, a Sud, verso Biringi.
Il bambino, dicevo, sorrideva, accoccolato al dorso della mamma, che si affaticava in un campo di manioca, al mercato, in marcia sulla lunga strada di terra rossa. lunga fino a dove? lunga sino al sole.
Quasi mi illudevo che bastasse così poco per una felicità.
Alzarsi con l’alba, coricarsi nella sera in una capanna di fango e fogliame, una notte di silenzio e stelle senza sapere quel che avverrà domani.
Quasi mi illudo che basti così poco per la felicità.
In effetti, direte voi, mancano ancora tante cose per essere felici, tante cose. le scorgo nei nostri occhi, tra le nostre mani, nei nostri pensieri. fatene un elenco rapido, anche senza pronunciarle ad alta voce: tante e tante cose davvero.
Io mi fido di quel che dite, figuratevi, eppure quel dubbio mi rimane, che basti così poco per una felicità, un bambino accoccolato al grembo della mamma.
Sarebbe troppo semplice, cercherete di convincermi, troppo sciocco e chissà quanti pericoli, senza tutte quelle altre nostre cose, e io vi ascolto, mi fido di voi, poiché siete delle persone serie.
Ma sapete cosa succede, alla fine di questa mia storia? Che il bambino sorride, che la mamma sorride e che, mi scuserete, sorrido anch’io.